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Libertà di software

di Giancarlo Livraghi

Pubblicato da Gandalf


Un nuovo movimento si aggira per il mondo. Ancora confuso, disordinato, non molto visibile. Ma sembra che – con molti anni di ritardo – si cominci a prendere coscienza del fatto che i sistemi informativi e culturali del mondo non possono essere assoggettati ai capricci e alle prepotenze di un aggressivo monopolista. Prima di entrare nell’argomento specifico, vorrei fare quattro premesse.

È evidente che quando una singola azienda ha oltre l’80 per cento del mercato su scala mondiale si parli di monopolio – e che l’attenzione si concentri sul monopolista. Specialmente quando il comportamento di quell’impresa è, per molti aspetti, criticabile, nocivo e pericoloso. Ma non si tratta di essere “pro o contro” la Microsoft. Si tratta di stabilire princìpi e metodi che siano validi per tutti. I sistemi informatici, e ancor più telematici (in particolare l’internet) sono nati e si sono evoluti inizialmente nel mondo scientifico e in un quadro di collaborazione aperta. La degenerazione “proprietaria” ha messo troppe leve fondamentali nelle mani di interessi privati e di concentrazioni che reprimono ogni libertà: di mercato, di sviluppo tecnologico, di informazione e di opinione.

Non si tratta semplicemente di una scelta “fra Windows e Linux”. Se è vero che oggi Linux (insieme ad altre soluzioni libere e aperte della “famiglia Unix”) è la migliore alternativa praticamente disponibile, ciò che conta è stabilire un principio universalmente valido che assicuri libertà, compatibilità e trasparenza.

Non si tratta solo di informatica o telematica. Attraverso il dominio dei sistemi operativi, e di conseguenza dei programmi, è possibile esercitare un prepotente controllo sulle reti, sul comportamento di persone e imprese, invadere il terreno della comunicazione e della cultura, violare la privacy. Soprattutto quando è nascosto il “codice sorgente” e quindi i contenuti e il funzionamento dei programmi non sono verificabili. È palese e dichiarato che l’attuale monopolista ha già fatto molte di queste cose e ha tutte le intenzioni di fare ancora peggio. Ma se altri si trovassero nella stessa situazione probabilmente farebbero cose analoghe. O avrebbero la possibilità di farlo – cosa comunque inaccettabile.

Nel momento in cui la percezione di questo problema si estende a livello internazionale, la reazione assume spesso un tono “antiamericano” (con la sgradevole conseguenza che si possano attenuare le – purtroppo deboli – spinte antimonopoliste negli Stati Uniti). Non è questo il punto. Se è preoccupante che ci sia un esagerato predominio di un solo paese sull’informatica e sull’internet (come sulla cultura e sull’economia del mondo) la soluzione non sta in limitazioni “protezioniste”. Al contrario, occorre una liberazione del sistema che permetta una più efficace concorrenza da parte dell’Europa e del resto del mondo.

“Ciò premesso” – veniamo al punto. Con molti anni di ritardo, sembra che il mondo cominci a svegliarsi e a prendere coscienza del problema. Notizie diffuse alla fine di agosto 2001 dicono che ci sono varie iniziative tendenti allo stesso obiettivo. Si stanno sviluppando in Brasile, in Argentina, in Messico e in altri paesi dell’America latina (tanto è vero che qualcuno definisce il movimento con un aggettivo spagnolo, software libre, in assonanza con una nota bevanda). Sembra che non si tratti solo di dichiarazioni, ma anche di fatti concreti. Per esempio risulta da altre fonti che in Brasile si stanno adottando soluzioni opensource nel sistema sanitario – in Messico nella scuola.

In Cina mancano notizie precise e aggiornate – ma da tempo si parla di adozione “ufficiale” di sistemi operativi opensource (potrebbero essere interpretazioni cinesi di Linux o di altri sistemi compatibili con Unix).

In Europa sembra che finalmente l’Unione Europea (in particolare il commissario Mario Monti) stia cominciando a prendere coscienza del problema. Le posizioni europee sul monopolio del software appaiono ancora deboli e frammentarie – ma sembra prender forma una strategia per l’adozione di soluzioni opensource. Le cose procedono un po’ lentamente a livello parlamentare in Francia (dove tuttavia ci sono iniziative diffuse e si sta formando un’agenzia governativa per “per incoraggiare l’amministrazione pubblica a usare software libero e standard aperti”) e in Germania (dove da tempo il governo finanzia lo sviluppo di sistemi aperti basati su Unix).

Non mancano, nel mondo, attività “spontanee” che non solo segnalano il problema ma offrono e realizzano soluzioni concrete. Ciò che finora è mancato è un coordinamento efficace – nonché un intervento coerente delle autorità pubbliche, nazionali e internazionali.

Ci sono anche iniziative di imprese private, come quella dell’Ibm che ha dichiarato di voler investire 200 milioni di dollari per lo sviluppo di soluzioni opensource in Asia. (E altre che non fanno gran che di concreto ma, almeno nelle loro dichiarazioni, vedono di buon occhio tutto ciò che può allentare le catene del monopolio e dare spazio alla libertà di mercato).

Il fatto preoccupante è che tutti tendono a soffermarsi su alcuni aspetti di dettaglio e perdono di vista la vera natura del problema. (Compresi i magistrati americani che da otto anni indagano sul monopolio ma finora non hanno ottenuto alcun risultato – e compresa, come già osservato, l’Unione Europea). Sarebbe desiderabile che una prospettiva internazionale riuscisse a far convergere analisi diverse in una diagnosi più organica – e così indirizzarsi verso una terapia più efficace.

In Italia? Ci sono parecchie situazioni locali in cui la pubblica amministrazione usa sistemi opensource (anche se il concetto non è sufficientemente compreso a livello centrale). C’è una mozione approvata il 26 luglio 2001 dal Consiglio comunale di Firenze che stabilisce “l’impiego di software libero o almeno open source” nella pubblica amministrazione (un fatto in sé minuscolo e poco significativo rispetto alle esigenze nazionali ed europee – che tuttavia ha avuto una certa eco internazionale). Ci sono state varie iniziative per porre con chiarezza il problema; soprattutto il comunicato di ALCEI del 29 gennaio 1999 È compito delle istituzioni pubbliche liberarci dalla schiavitù elettronica – che è ben noto al mondo politico e alla gestione centrale dei servizi pubblici perché è stato formalmente incluso negli atti del Forum per la società dell’informazione della presidenza del consiglio (giugno 1999) oltre che diffuso e documentato in vari incontri e convegni dedicati a questo argomento.

Ma finora questi evidenti e gravi problemi sono stati ignorati dal parlamento, dal governo e dall’amministrazione centrale, che hanno vergognosamente perseverato – con ingiustificabile entusiasmo e servilismo – nell’asservire i nostri sistemi pubblici (comprese la scuola e la sanità) a un monopolio straniero e incontrollabile con i “codici occulti” – cioè con sistemi che è impossibile conoscere e verificare. Come ho scritto altre volte... è come se la fornitura dell’acqua potabile fosse consegnata a un monopolista privato che (oltre a farcela pagare più cara del vino) non obbedisce alle nostre leggi né a quelle europee – e non ci permette un’analisi chimica di ciò che siamo costretti a bere.

Naturalmente il problema non riguarda solo la pubblica amministrazione. Ma da qualche parte bisogna cominciare. Se le imprese devono essere lasciate libere di fare ciò che vogliono (anche se è assurdo che siano così ciecamente “rassegnate”) non è accettabile che tecnologie e metodi sbagliati e dannosi siano adottati dai servizi pubblici e così “imposti” a tutti. Quindi è dal settore pubblico che occorre partire – con la speranza che soluzioni più sane, libere e funzionali si diffondano anche nelle imprese private. Il che non significa solo risparmiare miliardi e avere sistemi più efficienti, ma anche evitare inaccettabili invasioni della nostra libertà e autonomia culturale.

Siamo agli inizi di una “insurrezione” mondiale che finalmente porrà con chiarezza il problema? Speriamo. Per ora è troppo poco – e troppo tardi. Ma è sempre più evidente che questa situazione è grave e tende a peggiorare. Dovrà essere in qualche modo affrontata e risolta.

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